Quando l’ultimo dei testimoni della Shoah sarà scomparso, sapremo difenderci dagli abusi della memoria?

Sarebbe bello se il giorno della memoria non fosse solo una data sul calendario. Sarebbe bello se la Shoah non fosse solo un pretesto per convegni o palinsesti televisivi. L’indifferenza è sempre figlia dell’abitudine. Prima o poi, ci si abitua a qualunque cosa. Mentre si sperimentano nuove soluzioni digitali didattiche per ricordare la Shoah, ma anche per rendere disponibili gli archivi e per facilitare il lavoro di ricerca, c’è da chiedersi se oggi, nella società liquida dell’informazione, la coscienza delle tribù digitali sarebbe più rigida e meno capace di piegarsi a quella logica che considera l’altro un mezzo e non un fine.

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La memoria digitale può essere un alleato della memoria collettiva?

Forse i big data analytics possono aiutare gli storici ad affrontare la costruzione narrativa e a tenere a bada ogni minaccia revisionista. L’University of Southern California (USC) ha sviluppato una soluzione storage su private cloud di otto petabyte di dati per il suo archivio digitale sulla Shoah. La digital library “Voci dalla Shoah” dell’ Archivio Centrale di Stato è il progetto che ha permesso di recuperare e preservare importanti documenti di storia orale (www.shoah.acs.beniculturali.it). Ma preservare la memoria può bastare a diffondere la conoscenza? E oggi, i nuovi mezzi di comunicazione sarebbero un argine al lavoro di nuovi possibili “gerarchi” oppure renderebbero più facile il loro lavoro?

Quando l’ultimo testimone dei campi di sterminio sarà scomparso, quando quel ricordo non sarà più affidato alla voce viva dei protagonisti, avremo imparato la lezione e saremo capaci di difenderci dagli abusi della memoria? «Tanto grande è il rischio di dimenticare, che servirebbe un anniversario di Auschwitz al giorno». Così mi raccontò Elisa Springer, una mattina di quasi quindici anni fa, quando la incontrai.

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Il 12 febbraio, avrebbe compiuto 97 anni. Sopravvissuta ad Auschwitz, Bergen Belsen e Theresienstädt, frau Springer sarebbe sopravvissuta anche a Manduria, la piccola cittadina del sud Italia dove ha vissuto il resto della vita. Posso dire di avere conosciuto l’elegante signora dall’accento straniero due volte. La prima, attraverso le tante voci che circolavano sul suo conto nel mio paese di origine e che la volevano ballerina svizzera, spia tedesca, nobildonna in fuga d’amore. La seconda volta, grazie al figlio Silvio, quando Elisa decise – per amore di madre – di raccontare la sua storia nel libro “Il silenzio dei vivi” (Marsilio Editore, 1997), svelando una volta per tutte il numero di matricola A-24020 che aveva sul braccio e che fino a quel momento aveva tenuto nascosto per molte ragioni. Del resto, la mancanza di dialogo nasce dall’ignoranza. E dall’ignoranza, nasceva anche la diffidenza verso quella signora straniera di un piccolo centro agricolo del sud nell’Italia del dopoguerra. E l’ignoranza finisce per legittimare la violenza in tutte le sue forme. È lei stessa a scrivere: «Il loro scherno e la loro indifferenza mi ferivano».
Dopo così tanto tempo, Elisa Springer aveva scelto di raccontare la sua storia. Prima, nessuno voleva ascoltare. «Il mio silenzio – mi raccontò – è stato causato dal silenzio degli altri. C’è il dolore di coloro che hanno sofferto e soffrono, che hanno subito e subiscono le atrocità della guerra, i massacri in nome di Dio o della razza. E c’è il silenzio che ci continua ad accompagnare».

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La verità ama nascondersi

Quando la storia ci porterà, di nuovo, a scegliere tra l’egoismo e la collaborazione – e, per certi versi, lo sta già facendo – speriamo che ciascuno di noi faccia la scelta meno comoda. A pochi giorni dai fatti di Parigi, si è aperta una nuova campagna del sospetto contro un intero popolo. Che cosa avrebbe pensato Elisa Springer? Forse, che è più facile parlare del passato quando le colpe sono degli altri e ignorare le moltitudini di disperati che fuggono dalle tante guerre in giro per il mondo. Si può commemorare il passato e allo stesso tempo chiudere le frontiere alle carrette del mare?

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Si possono ricordare degnamente le vittime della Shoah, quando dimentichiamo sistematicamente i morti del popolo armeno, quelli della rivoluzione di Mao, i lager di Stalin, i morti del popolo cambogiano, i massacri del Rwanda, della Bosnia, del Kosovo e della Nigeria?
E che cosa facciamo per non dimenticare le vittime innocenti dei conflitti in Siria, Afghanistan, Palestina? La storia non si ripete mai uguale a se stessa. L’indifferenza dell’Occidente che permise quasi l’eliminazione di un popolo dal cuore della civile Europa solo settanta anni fa, arma ancora la mano dei carnefici di tutte le guerre che ancora si combattono nel mondo.
Lo stesso pontefice, Papa Francesco, di ritorno dalla Corea del Sud, aveva dichiarato che siamo di fronte a un nuovo conflitto globale, ma a pezzetti. «Nel mondo, c’è un livello di crudeltà spaventosa, dove la tortura è diventata ordinaria». Eppure, di fronte a questa crudeltà spaventosa, restiamo indifferenti.

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La storia di Lisl

La vita di Lisl Springer (detta Lizzi) ha molti capitoli, non tutti raccontati. Il rapporto con i suoi stessi concittadini non fu sempre all’insegna della reciproca comprensione. Il silenzio dei vivi nasconde sempre una colpa. E la verità ama nascondersi, anche quando si decide di raccontarla.
Elisa Springer naque a Vienna in una ricca famiglia ebrea di commercianti di origine ungherese, figlia unica di Riccardo Springer e Sidonia Bauer. Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania per formare la Grande Germania nel 1938, annessione votata da oltre il 90% della popolazione, ebbe inizio la violenta persecuzione verso gli ebrei. Nel 1940 quando il padre fu arrestato, Elisa si rifugiò a Milano, dove iniziò l’attività di traduttrice privata per alcune società. Tradita da una donna, spia fascista, fu arrestata nel 1944 e dopo poco più di un mese di carcere tra Como e Milano, fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz il 2 agosto 1944, dove fu selezionata da Joseph Mengele in persona.

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«Con un cenno del pollice ti dava la vita o la morte» – racconta Elisa Springer nel suo libro. «Appena arrivati ti mandava al gas o in campo, e poi faceva le selezioni ogni 15 giorni. Bastava un foruncolo o una piaga per finire nel camino. Una volta mi hanno bruciato con un ferro rovente su una coscia perché avevo sorretto una compagna durante un lungo appello. Mi hanno chiamata fuori dalla fila e mi hanno punita davanti a tutte. Ho scampato il gas solo perché, quando la ferita era ancora aperta, non ci furono selezioni».
Eppure, Elisa Springer riuscì a sopravvivere alle terribili condizioni di vita ad Auschwitz e in altri campi di concentramento. A Bergen-Belsen conobbe personalmente Anna Frank. Passata nel campo di Theresienstadt, venne liberata il 5 maggio 1945.
Nel 1946, si trasferì definitivamente in Italia e trascorse il resto della vita a Manduria in provincia di Taranto, dove è stata anche sepolta dopo la sua morte.
Ricordo che nel maggio del 1999 al Teatro Politeama Greco di Lecce furono eseguiti due valzer di Elkan Bauer nonno materno di Elisa, morto nel campo di concentramento di Theresienstadt. Le partiture di “Diana walzer” e “Aeroplan walzer” scampate alla notte dei cristalli di Vienna furono affidate al direttore d’orchestra Realino Mazzotta che le revisionò e le diresse. Il concerto fu presentato dal giornalista televisivo e scrittore Corrado Augias e dall’ambasciatore d’Austria in Italia Günter Birbaum.

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Il testamento di Elisa Springer

Degli ultimi anni dell’esistenza di Elisa vissuti a Manduria, ricordo soprattutto il coraggio e l’impegno instancabile a raccontare alle giovani generazioni gli orrori dei campi di concentramento.
Nell’incipit del libro testamento di Elisa Springer, si legge: «Oggi, più che mai, è necessario che i giovani sappiano, capiscano e comprendano. È l’unico modo per sperare che quell’indicibile orrore non si ripeta, è l’unico modo per farci uscire dall’oscurità. E allora, se la mia testimonianza, il mio racconto di sopravvissuta ai campi di sterminio, la mia presenza nel cuore di chi comprende la pietà, serve a far crescere comprensione e amore, anch’io allora, potrò pensare che, nella vita, tutto ciò che è stato assurdo e tremendo, potrà essere servito come riscatto per il sacrificio di tanti innocenti, amore e consolazione verso chi è solo, sarà servito per costruire un mondo migliore senza odio, né barriere.
Un mondo in cui, uomini liberi, capaci e non schiavi della propria intolleranza, abbattendo i confini del proprio egoismo avranno restituito, alla vita e a tutti gli altri uomini, il significato della parola libertà».

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