Ricerca COFIMP sull’Intelligenza Emozionale in azienda. Ai manager (uomini e donne) la palma della “freddezza”; segretarie, precari (stagisti e tirocinanti ) e consulenti i più “caldi”. E addio ai venditori “top gun”.
Negli ultimi 10 anni, la vita delle organizzazioni è stata caratterizzata da una forte polarizzazione su alcuni fattori (esigenze di ristrutturazione legate al dilagare di una concorrenza eterogenea e globalizzata che ha modificato completamente gli assetti competitivi, attenzione spasmodica agli obiettivi di breve-medio periodo a scapito di una progettualità e una visione strategica di più lungo respiro, cambiamenti nelle governance aziendali, in situazione di forte discontinuità, ecc.) che sembrano aver condizionato lo sviluppo di un know how emotivo-relazionale adeguato per sfruttare le grandi potenzialità insite nella nuova libertà sociale del terzo millennio, che evidentemente fatica a valicare i confini dell’impresa.
Fatte le debite eccezioni, all’interno delle organizzazioni sembra ormai prevalere un approccio relazionale autoreferenziale, che rispecchia uno scetticismo dilagante nei sentimenti delle persone di poter effettivamente incidere sul cambio di passo da più parti evocato, di riuscire a essere effettivamente protagonisti del cambiamento.
E’ questa la principale conclusione di un’apposita ricerca “sul campo” condotta tra il 2001 e il 2009 da Cofimp, Società di alta formazione e consulenza di Unindustria Bologna, su un campione di 1200 soggetti (660 uomini e 540 donne) di età media di 39 anni (minima 20, massima 65), a cui è stato somministrato un apposito Test sviluppato da RH Comportement di Parigi sulla base di un’esperienza di coaching nel campo dell‘Intelligenza Emozionale che dura dal 1991.
Lo strumento è stato concepito per la rilevazione di 5 fattori che rappresentano l’ossatura della nostra Intelligenza Emozionale: empatia; maturità emozionale, sensibilità, cordialità ed esteriorizzazione dei sentimenti.
Confrontando i risultati del test realizzato nel 2001 con quelli del 2009 appare subito una prima evidenza: “Per quanto riguarda il lavoro” hanno sottolineato Maurizio Sarmenghi e Federico Bencivelli di Cofimp, coordinatori della ricerca “negli ultimi dieci anni si è assistito a un sostanziale ‘allineamento’ tra uomini e donne; queste ultime assomigliano sempre più agli uomini e viceversa”.
I risultati registrati da Cofimp non lasciano dubbi: sul posto di lavoro, le donne – storicamente più capaci di comprendere gli altri, le loro motivazioni, i loro bisogni e in grado di stimolare spesso un comune desiderio di migliorarsi – stanno diventando sempre più “fredde” e calcolatrici.
A testimoniare questa tendenza il calo registrato sia nel loro livello di empatia sia nella loro sensibilità. A preoccupare è anche il loro livello di cordialità visto tendenzialmente al ribasso.
Secondo i parametri utilizzati da Cofimp, in dieci anni la sensibilità delle donne è passata da un punteggio di 7 a 1,3; mentre la cordialità è precipitata da 8,1 a -0,7. Per contro, la sensibilità degli uomini è salita da -0,1 a 5,7 e la cordialità è crollata da 0,7 a -3,3.
“E’ come se le due metà del cielo, anziché ottimizzare, valorizzandole, le differenze avessero perduto le rispettive caratteristiche peculiari con il risultato di mandare in scena comportamenti uniformi” hanno sottolineato Sarmenghi e Bencivelli.
“Stiamo assistendo a un appiattimento verso il basso, sia per le donne che per gli uomini. Il risultato sono relazioni peggiori sul lavoro, persone chiuse in se stesse, appesantite da fatica e senso di isolamento, autoriferite, e soprattutto senza una vera progettualità professionale, ma anche, oseremmo dire, personale. E indubbiamente l’impatto prodotto dallo stress di momenti difficili come quello che stiamo vivendo non è secondario”.
Il campione è stato anche descritto in relazione alla tipologia professionale di appartenenza e al livello di responsabilità ricoperto nella gestione di altre persone.
Sono state considerate 8 macro-tipologie professionali, comprese tipologie non organiche alla vita delle impresa come consulenti e precari: commerciale, produzione, top management, ricerca e sviluppo, amministrazione, risorse umane, stagisti/tirocinanti, consulenti, sviluppo organizzativo e segreteria.
Per quanto concerne il livello di responsabilità, infine, sono stati definiti 3 diversi gruppi composti da soggetti con responsabilità alta, media o nulla, nella gestione/coordinamento gerarchico di altre persone.
Il 55% dei soggetti ricopre funzione di media responsabilità, il 26,3% di alta responsabilità (il 44,8% di questi soggetti è costituito da appartenenti alla categoria “Alta Direzione”), e solo il 18,7% svolge compiti senza alcun impatto di responsabilità nella gestione di altre persone.
Tra i risultati specifici più rilevanti, quello relativo alla “scarsa” Intelligenza Emozionale dei manager italiani, siano essi uomini o donne.
“Nella nostra cultura manageriale” hanno spiegato Sarmenghi e Bencivelli “fatica in sostanza a farsi spazio un modello di gestione effettivamente fondato su un approccio compiutamente empatico.
Al livello manageriale questa potenzialità sembra addirittura regredire, per lasciare il campo a uno stile a volte protettivo (basato sul rimprovero o l’elogio di stampo ‘genitoriale’), a volte ‘affiliativo’ (con me o contro di me), o semplicemente ‘prescrittivo’ (controllo sull’esecuzione di compiti e attività)”.
“In generale” hanno sottolineato i partner Cofimp “la ricerca rivela una visione ancora troppo ego-centrica sulla possibilità di risolvere i problemi. Una progettualità di corto respiro che non lascia spazio al fluire delle intuizioni, delle potenzialità creative disponibili per creare soluzioni innovative”.
“Possiamo invece notare la congruità di una sensibilità di tipo ‘affettivo’ per chi opera in ambito risorse umane e formazione, così come appare coerente una sensibilità di tipo pragmatico nelle figure più operative (produzione, ricerca e sviluppo).
E’ interessante vedere come la categoria delle figure più ‘precarie’ (tirocinanti/stagisti) – quindi composta da soggetti generalmente più giovani – mostra punteggi significativamente più alti per quanto riguarda la cordialità e l’empatia.
Questo dato è sintomatico della spinta motivazionale e comunicativa che spinge chi è in fase di inserimento a farsi apprezzare facendo leva su un elevato grado di ascolto ‘attivo’ e apertura spontanea alla relazione, dovendo invece maturare una capacità di finalizzazione e raggiungimento di obiettivi specifici”.
“E’ diffusa, infine, in tutti i profili, una modesta propensione all’esteriorizzazione, con l’unica parziale eccezione delle figure di “Assistant” (segreteria, centralino). Esternare le proprie emozioni sul luogo di lavoro resta ancora un tabù, con inevitabili conseguenze sul piano della chiarezza e della coerenza comunicativa”.
La ricerca, infine, sfata un “mito” in qualche modo consolidato, quello del commerciale, del venditore come “top gun”, formato camminando sui carboni ardenti, in grado di superare qualsiasi obiezione, sempre iper-cordiale, più orientato a tutelare i propri obiettivi e quindi maggiormente proteso a “sedurre” piuttosto che a cogliere gli effettivi bisogni del cliente.
“Sono sempre più merce rara” hanno sottolineato Sarmenghi e Bencivelli. “Questo dato testimonia l’esito di una transizione da una logica e conseguentemente da un approccio commerciale ‘push’, fondato sulla spinta ‘ossessiva’ del prodotto sul mercato a un modello ‘pull’, decisamente più ‘consulenziale’ e mirato alla fidelizzazione del cliente nel medio-lungo periodo, attraverso una maggiore capacità nel saper assumere la sua prospettiva.
E ciò nonostante la continua tensione sul raggiungimento degli obiettivi e la guerra talvolta sanguinaria sui prezzi”.